UnDeR the StarRy Sky

una finestra sospesa tra le nuvole e le stelle

Finestre dell'altrove.

I

Una donna alta, straniera. I capelli biondi, sfumati di bianco. Indossa un cappotto di panno verde e ha troppe buste appese al braccio.

Si sedette al tavolo e ordinò un tè. La stanza era ampia, piena di tavolini tondi con tovaglie a motivi floreali, piattini di ceramica e portavivande in acciaio. La carta da parati a righe rosa mostrava le macchie di umidità e sui muri erano appesi grossi specchi di ottone che mostravano, sotto il vetro, tracce dello strato di alluminio. L’atmosfera era gradevole e vintage. Uno stile forzatamente Old English, pensò, mentre versava il tè bollente dal bricco alla tazzina bianca con il bordo scheggiato. Il vapore esalò subito in una nuvola che le avvolse il volto e la costrinse a socchiudere gli occhi. Si ritrovò altrove.

La stanza era così stretta che non c’era neppure un tavolino. Si doveva estrarre una lunga tavola di legno dal primo cassetto sotto il piano cucina, e lì, in delicato equilibrio, si allestiva il pranzo. Quella era una sua competenza. Appena sua madre diceva: è ora del tè, lei correva in cucina, prendeva il panno di feltro verde dal cassetto, montava la tavola di legno e cominciava ad apparecchiare. Avevano poche cose, ma le sistemava con cura, mentre sua madre riempiva d’acqua la teiera di acciaio con il becco di anatra, e apriva la bombola del gas per accendere il fornello. Metteva i centrini di pizzo dall’orlo bruciacchiato uno di fronte all’altro, e su di essi costruiva la piccola piramide piattino – tazza – cucchiaino, imburrava le fette di pane e le disponeva al centro, tagliava il limone in spicchi sorridenti e scaldava tra le mani il bricco con un dito di latte, attenta ad ogni operazione.

E, a concludere il rito, l’anatra fischiava. La mamma si voltava e portava il tè e un sorriso in tavola.

Tese l’orecchio. Nel locale si sentivano le chiacchiere dei clienti, i loro andirivieni, i tintinnii della ceramica sui vassoi delle cameriere, il fruscio del rullo dello scontrino alla cassa … ma non si riusciva a sentire le teiere fischiare.

II

Ragazzo magro, capelli corti e una pashmina al collo, seduto nella sua vettura, una fiat seicento nera.

Il traffico non è poi così spiacevole. E’ quasi una pausa meritata. Certo, è da molto che non guido: forse è per questo che non mi sento stressato. Ho sintonizzato la radio su Virgin, e stanno dando un pezzo dei metallica da The Black Album, uno dei miei preferiti. Non dovrei fumare in auto, ma ho abbassato i finestrini e mi sono acceso una Marlboro. Il fumo disegna piccoli anelli davanti al viso e poi fugge via, oltre il finestrino. E’ inverno, ma non fa troppo freddo. Direi che è gradevole avere i finestrini abbassati, perfino se sta piovendo. E’ una pioggia sottile, quasi trasparente, la posso vedere solo in controluce. C’ è una finestra aperta e illuminata, le tende ondeggiano piano, dorate contro il cielo ottuso della sera. E mentre osservo la pioggia spiraleggiare contro luce, tra le sfumature rosse dei fari di posizione e quelle d’oro dei lampioni, mi chiedo quale vento le agiti, quale vita.

Forse la mia.

III

L’uomo è affacciato. Un giaccone pesante e un berretto calcato sugli occhi – grandi occhi chiari.

Esteticamente brutto, questo cortile interno. Una costrizione costruita per obbligare tutti a guardare tutti. Come se non lo facessimo abbastanza. La mia stranezza, però, è che mi piace.

Sarà perché fin da bambino ho sempre ritagliato il cielo. Mi spiego.

Molto tempo fa i miei genitori mi portarono in viaggio in Puglia. Stavamo andando a trovare i nonni ed era sulla strada, così ci fermammo a Castel Del Monte. Io piangevo perché non mi piaceva fare i viaggi e quel castello massiccio mi faceva paura. Ma, passando per il cortile interno, quasi per caso, alzai lo sguardo e scorsi un ottagono di cielo. Mi sorprese l’idea che il cielo potesse avere dei confini, addirittura una forma. E da allora non ho smesso di cercarle, le forme del cielo, o di inventarle.

Quando mi affaccio su questo minuscolo cortile, al centro del rettangolo del vecchio palazzo popolare di periferia in cui abito da trent’anni, ritrovo un po’ di quella emozione. Il cielo qui ha una forma più semplice, ma c’è ancora altro da guardare.

Le finestre che si illuminano e si spengono, e le ombre disegnate dalle lampadine appese, che crescono e rimpiccioliscono all’oscillare del filo, i panni stesi che danzano, i tendoni ricoperti di muffa, il suono diverso di vite diverse e l’accendersi delle caldaie, che ronzano come insetti – scordate cicale d’inverno.

Le ascolto alternarsi dai diversi angoli, come richiami d’amore. Come un canto che dice: non sono scomparso.

Il cielo ha ancora i suoi spigoli.

IV

Mi sono trasferito da poco perciò mi stupisco di trovare una scala. Sono salito in soffitta altre volte ma non mi ero accorto che si poteva ancora salire. Percorro la rampa di scale adagio, guardando verso quello che mi aspetta dietro l’angolo. Una porta di metallo mi sbarra la strada. Prendo il mazzo delle chiavi di casa e le sfoglio ad una ad una, selezionando quelle per cui non ho ancora trovato un uso. Le provo tutte nella serratura della porta, ma nessuna funziona. Eppure almeno una chiave entra. Non gira, resta bloccata. Sarà la ruggine. Provo con più forza e sento agire all’interno. Il meccanismo bloccato ritrova le sue combinazioni e, cigolando, scatta. Apro la porta e la luce mi investe. E’ una bella giornata di sole e la luce inonda la terrazza bianca.

Davanti a me una foresta regolare di fili di ferro tesi tra pali bianchi,e mi sembra di rivedere me e mia sorella, da bambini, rincorrerci sul tetto del nostro palazzo di allora, mentre le donne stendevano i panni, sullo stesso filo, e noi ci nascondevamo tra le lenzuola, gonfie come vele di una nave pirata.

Sembra quasi di avvertire il frusciare del cotone e il profumo asprigno di sapone … ma qui i fili sono deserti. Eccetto che per gli uccelli. Uno su ogni palo, come nere sentinelle. Come anime nere in attesa.

Sento tremare la mia.

V

Una ragazza seduta nell’autobus. Indossa un cappotto verde. Il suo viso è rivolto all’indietro.

Ho rovesciato lo sguardo e ho trovato una vecchia finestra. Il legno marcio, senza doppio infisso, una cornice sbiadita per un paesaggio nostalgico. E’ gennaio e la nebbia sale dalla terra umida. Oltre il tenue chiarore posso vedere la catena della Margherita, il profilo bianco e rosa di neve, illuminato da un sole già chino. Il profumo di terra e di legna bruciata nel camino acceso con fatica, e la marjuna che inebria la stanza imbiancata di calce, un vecchio giradischi nell’angolo e una bottiglia di brachetto per terra. L’ultima goccia di vino sul mio collo teso e una piuma bianca soffiata via dalla coperta che avvolge i nostri corpi nudi. La prima volta già così dimenticata, e i destini incrociati come le nostre mani, per la mia anima già sola.

All’improvviso non aver paura di ricordare.


Tutti i diritti riservati. Laura 2009



bLoG Di

bLoG Di